Il bambino e il campione

Nel 1936 Otto Rosenberg, 9 anni, viene imprigionato nel campo di sosta forzata di Marzahn (Berlino). La sua colpa? Essere uno “zingaro” e in quanto tale portatore di due tare ereditarie: il nomadismo e l’asocialità. Luca Bravi ci racconta la sua storia e quella del pugile Johann Trollmann.

di Redazione GiuntiScuola25 gennaio 20169 minuti di lettura
Il bambino e il campione | Giunti Scuola
22 Gennaio 2016 Argomento: La Vita Scolastica , autore: Luca Bravi, ricercatore , Luca Bravi è ricercatore TD presso l'università Telematica L. da Vinci di Chieti. È autore di numerose pubblicazioni relative alla storia dei rom e dei sinti in Europa legate in particolare ai temi dell'internamento, dello sterminio e della successiva storia della scolarizzazione. Si occupa di storia della Shoah e della storia nell'ambito degli Holocaust studies. È stato relatore alla Camera dei Deputati in occasione del primo riconoscimento a livello nazionale della persecuzione dei rom e dei sinti in Italia durante il fascismo, avvenuto il 16 dicembre 2009 all'interno del convegno promosso per il 71° anno dalla promulgazione delle leggi razziali. Nel 2010 è intervenuto all'interno della Biennale del Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE) con una relazione su "La situazione sociale e la scolarizzazione dei rom in Europa". Ha partecipato al tavolo di lavoro costituito dal MIUR per la preparazione del Seminario nazionale sulla "scolarizzazione degli alunni rom" tenutosi dal 18 al 20 ottobre 2010 a Gardone Riviera - Brescia. Ha collaborato con il Consiglio d'Europa per la preparazione di materiali di formazione relativi alla persecuzione dei rom in Italia (http://www.romagenocide.org). Ha Partecipato come esperto al progetto "Treno della Memoria" della Regione Toscana. Dirige il comitato scientifico del progetto europeo "MEMORS. Il primo museo virtuale del Porrajmos in Italia" che si svolgerà nel corso del 2012. E' autore, insieme a Nando Sigona, del saggio "Rom e sinti in Italia. Permanenze e migrazioni", pubblicato all'interno dell'Annale n. 24 della Storia d'Italia Einaudi.
 
 
 

Nell’ottobre del 2012 a Berlino, la cancelliera Merkel ha inaugurato il memoriale dedicato alle vittime rom e sinti del nazismo . In 23mila morirono ad Auschwitz tra il 1943 ed il 1944 e furono più di mezzo milione le vittime totali di un genocidio su base razziale che ha stentato a lungo a trovare riconoscimento: troppo forte ancora lo stereotipo dello “zingaro” e l’antiziganismo in Europa, con etichette denigranti che sono rimaste indelebili nel tempo. In Italia, ad esempio, il Porrajmos (il genocidio dei rom e dei sinti) non viene neppure nominato nella legge che ha istituito il Giorno della Memoria . Eppure non ha alcun senso pensare ad una memoria che si sviluppi per singole categorie, come se si potesse separare la memoria ebraica da quella dei deportati politici, da quella dei rom o da quella dei disabili e degli omosessuali.

Sappiamo dei 23mila rom e sinti di Auschwitz per il coraggio di un deportato polacco che mise in salvo il libro mastro dello Zigeunerlager (campo degli zingari) di Auschwitz-Birkenau prima che i prigionieri di quel settore del campo fossero liquidati in una sola notte, il 2 agosto 1944; fu il prigioniero Piero Terracina , ebreo italiano, a parlare per primo di quei tremila rom e sinti rimasti ad Auschwitz che si disperavano mentre venivano avviati alle camere a gas. Senza questa memoria composta da più tasselli di varie categorie d’internati, le matricole degli “zingari” di Birkenau non avrebbero potuto recuperare un nome ed un cognome, dunque una storia.

È lecito domandarsi se la storia della “soluzione finale” nazista possa davvero trovare spazio ed ascolto in ogni ordine e grado di scuola, così come recita il testo della legge n. 211 del 2000. Quando ci si avvicina alla scuola primaria il pericolo è quello di gettare addosso a bambini e bambine ancora privi degli strumenti di elaborazione necessari a capire la razionalità del genocidio, un carico tale di emozioni che potremmo produrre solo paura o presa di distanza a priori.
È possibile però immaginare un percorso di storie che possano in qualche modo cominciare a dialogare anche con bambini e bambine costruendo un dialogo in grado di generare semplice interesse ed empatia, o forse di gettare quei piccoli semi per porsi domande che germoglieranno nel tempo futuro.
In questo caso ho scelto di raccontare due storie , perché le vicende di rom e sinti nel Terzo Reich non sono ancora troppo conosciute. La narrazione di vicende legate a persone in carne ed ossa, forse può aiutare ad avviare un percorso di domande in grado di generare interesse. Se a costruire interesse intorno a questo tema saranno delle insegnanti, sarà poi la loro personale capacità didattica a suggerire eventuali modalità e percorsi per continuare una narrazione che diventi modulo scolastico applicabile anche in classe.

Il bambino che intrecciava le ceste

Otto Rosenberg aveva 9 anni quando fu imprigionato nel campo di sosta forzata di Marzahn, un’area periferica di Berlino. La colpa individuata era quella di essere uno “zingaro” e pertanto di essere portatore di due tare ereditarie: il nomadismo e l’asocialità. Era il 1936 e nella capitale della Germania erano prossime le Olimpiadi, così Otto, che viveva di commercio itinerante vendendo ceste di vimini che fabbricava con i propri nonni, fu prelevato insieme alla propria famiglia e rinchiuso in un luogo privo di qualsiasi servizio, circondato da filo spinato e controllato dalla polizia . Luoghi simili sorsero in tutte le principali città tedesche.
Pochi mesi dopo, le famiglie di Marzhan e degli altri campi di sosta forzata cominciarono a ricevere le visite di Robert Ritter, il direttore dell’Unità d’igiene razziale del Reich e della sua assistente Eva Justin, una giovanissima antropologa. Prima le misurazioni antropometriche, poi la ricostruzione degli alberi genealogici delle famiglie ed infine, per i ragazzi e le ragazze sinti e rom come Otto, l’abitudine a visitare la casa di Eva Justin per infilare perline, fabbricare collane ed essere coinvolti in alcuni giochi d’abilità manuale.

Nel 1938, le ricerche svolte permettevano ad Heinrich Himmler di catalogare la “questione zingari” come questione di razza da equiparare alla “questione ebraica ”. Intanto da Berlino-Marzahn scomparivano sempre più persone; si diceva fossero trasportati a lavorare in altri paesi, ma nessuno era mai tornato. Otto consumava le proprie giornate sfruttato come mano d’opera schiava per le necessità di guerra del Reich. Un giorno di febbraio fu infine prelevato insieme a tutta la famiglia. Nel dicembre del 1942 era stato infatti firmato il decreto di Auschwitz, l’ordine che individuava il lager di Birkenau come luogo di annientamento degli “zingari”.

Otto Rosenberg fu uno dei prigionieri dell’area dello Zigeunerlager di Birkenau, la sua matricola era Z 6084 (Z stava per “zingaro”), vi giunse con un trasporto misto di rom e sinti e di ebrei che giunsero a Birkenau, il 26 febbraio 1943. In quell’area del campo svolgeva i propri esperimenti su cavie umane il dottor Joseph Mengele; anche Otto attraversò più volte il corridoio del suo laboratorio. Una testimonianza delle sperimentazioni effettuate sulla categoria degli “zingari” è stata recentemente offerta da Hugo Hollenreiner.


Otto Rosenberg scampò alla liquidazione del campo degli zingari di Birkenau soltanto perché il 1 agosto fu selezionato per continuare ad essere sfruttato come mano d’opera schiava prima nel campo di Buchenwald, poi a Bergen Belsen, dove fu liberato. È stato il solo sopravvissuto della propria famiglia. Otto Rosenberg ha affidato la sua storia alle pagine di un diario intitolato La lente focale (Marsilio, 2000), erano già trascorsi più di cinquant’anni dalla liberazione di Auschwitz.

Il campione di Boxe

Johann Trollmann era un pugile straordinario. Un pugile sinti di cittadinanza tedesca i cui movimenti somigliavano a quelli che successivamente avrebbero caratterizzato Muhammad Ali; in lingua sinta era chiamato Rukeli , “l’albero” per il suo fisico possente ed i suoi movimenti sinuosi.
Il 9 giugno 1933, Trollmann sale sul ring per la corona dei pesi medi contro Adolf Witt, l’uno “zingaro”, l’altro ariano. Johann mette al tappeto l’ariano in appena sei riprese, ma la federazione pugilistica tedesca gli sottrae il titolo con un pretesto. Torna dunque a combattere per lo stesso titolo qualche mese dopo, ma con delle pesanti restrizioni: non potrà muoversi e dovrà incassare i colpi stando fermo al centro del ring , altrimenti gli sarà ritirata la licenza di pugile. Johann decide allora di salire sul ring cosparso di farina bianca con i capelli tinti di biondo in segno di scherno di fronte all’ideologia razzista propugnata dai nazisti: va al tappeto dopo cinque riprese coprendo l’avversario di quella farina che si alza dal proprio corpo durante l’ultima caduta.

Si conclude così la carriera pugilistica del campione sinti che presto avrebbe seguito il destino degli altri sinti e rom del Terzo Reich, internati in campi di concentramento e di sterminio, nel suo caso a Neuengamme, nei pressi di Amburgo. In quel campo trova Tull Harder, il centravanti dell’Amburgo che ha aderito alle SS e che costringe Rukeli a combattere contro uno dei più feroci kapò del lager, di fronte alle SS ed agli altri prigionieri.
Johann è consapevole che battere il kapò significherà ancora offrire un gesto di sfida verso gli aguzzini, ma questa volta mette al tappeto l’avversario . Tre giorni dopo un colpo di pistola pone fine alla vita del campione di boxe. La cintura dei pesi medi che gli era stata sottratta con l’inganno, è stata restituita alla famiglia soltanto nel 2003, dopo anni di amnesia e di colpevole silenzio su questa vicenda. La storia di Rukeli è oggi narrata da Dario Fo nel libro Razza di Zingaro (Chiarelettere, 2016).

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