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Le scelte della mia scuola multiculturale – Il doposcuola per chi si sente fuori posto

Storia di Milo, Fathima e tanti altri: i servizi extrascolastici, o doposcuola, affiancano la scuola nel compito di accoglienza dei ragazzi stranieri, soprattutto nella fase iniziale, quando le difficoltà appaiono più grandi a causa dell’impossibilità di comunicare. Aspettando il convegno “A scuola nessuno è straniero”. 

di Redazione GiuntiScuola09 febbraio 20166 minuti di lettura
 Le scelte della mia scuola multiculturale – Il doposcuola per chi si sente fuori posto | Giunti Scuola

In occasione del convegno A scuola nessuno è straniero. La scuola multiculturale nel tempo delle scelte (18 marzo, Padova) abbiamo chiesto ad alcuni amici di "Sesamo" (insegnanti, educatori, dirigenti scolastici) di raccontarci una delle scelte che la scuola multiculturale si trova a fare ogni giorno. Oggi diamo voce a Loredana D'Apote.

Comunicare senza parole

Milo, extracomunitario appena arrivato in Italia, va alla scuola media ed è stato inviato al nostro doposcuola . Non capisce la lingua, si dimostra molto riservato – sussurra appena, non si muove, non mi guarda, non sorride – e sembra spaventato. I suoi genitori lo hanno lasciato da piccolo per cercare lavoro e casa ed ora che finalmente possono permettersi di vivere con lui, si può immaginare la gioia quando in famiglia hanno deciso il ricongiungimento, è lui a sentirsi fuori posto.

Dopo tanti anni ancora ci si sorprende di quanto questi “nuovi arrivati” si assomiglino. Certamente uno è sudamericano e l’altro cingalese , uno è ribelle e l’altro schivo e inibito, ma è sempre possibile sperimentare il senso di spaesamento, la difficoltà dell’inserimento, lo sgomento: si percepiscono sulla pelle, si leggono nei loro occhi quando all’inizio molta parte della comunicazione passa dal corpo, visto che la lingua è nemica. Un sorriso, uno sguardo che intercetti il loro, una carezza gentile sulle spalle: la comunicazione non verbale permette di aprire un canale comunicativo senza essere intrusivi.

Un ragazzino giapponese si trovava in gravissima difficoltà a scuola: spesso si irrigidiva fisicamente, come una statua, fissava un punto nel vuoto, chiuso su se stesso e silenzioso. Il primo contatto con lui, figlio di una cultura dove l’intimità fisica è sgradita, furono il tono di voce basso, incoraggiante, poi la ricerca del contatto visivo e infine tattile. Tornò in Giappone dopo un anno. L’anno seguente, con mia grande gioia, venne a trovarci. Gli comprai i suoi giornalini preferiti , però tutto il lavoro fatto insieme – dal contatto visivo al dialogo condiviso – sembrava dissolto. Quando lo salutai affettuosamente non mi guardò negli occhi, rimase immobile e poi, inaspettatamente, mi abbracciò così forte da farmi quasi male. Mi sbagliavo circa la sua modalità comunicativa, per il nostro saluto aveva scelto la più intima.

Lingua d’origine e lingua d’accoglienza

Condividere una lingua per comunicare è importante. Quando arrivano i ragazzi filippini, ad esempio, spesso parlano l’inglese, una mediazione tra la lingua d’origine (L1) e la lingua del Paese di accoglienza (L2), e ciò aiuta ad entrare nella loro sfera relazionale. L’utilizzo dell’inglese, più che per ragioni pratiche, serve a metterli a proprio agio e a rassicurarli .
In una giornata di maltempo, sorpresi una tredicenne col naso incollato al vetro della finestra; raccontò malinconicamente come al suo Paese fosse felice di uscire all’aperto per ballare sotto la pioggia. Nessuno sa se inventasse, sognasse o fosse un ricordo di un giorno sereno, ma la condivisione di quell’episodio in inglese creò un legame.
L’incontro-scontro tra la lingua materna e la nuova lingua può generare malesseri, anche fisici, turbamento e insicurezze, ugualmente sorpresa, curiosità, entusiasmo. Lo esprime con sensibilità ed accuratezza T. B. Jelloun nel suo romanzo A occhi bassi , quando racconta l’esperienza di Fathima e del rapporto tormentato tra la sua lingua berbera e la nuova lingua francese.

Ascoltare il silenzio

Gli alunni stranieri passano una fase di silenzio , più o meno lunga a seconda della lingua di provenienza, dell’età, della personalità. Ma non è un silenzio vuoto, anzi è frutto di ricerca, di impegno, di trepidazione; basta saperlo stare ad ascoltare . Ognuno ha i suoi tempi, qualcuno deciderà di parlare stentatamente dopo qualche settimana, qualcun altro non riuscirà ad esprimersi prima di qualche mese, ma lo farà con maggiore accuratezza .
Come bambini piccoli che apprendono a parlare, bisogna sapere attendere, evitare di riempire sempre il loro silenzio con la nostra voce ed attuare interventi incoraggianti più che correttivi per non pregiudicare l’espressione. E come durante una corsa è necessario rallentare per riprendere fiato o addirittura fare una pausa, così sapere attendere in silenzio può aiutarli a non soccombere sotto la mole di suoni estranei e incomprensibili, a rielaborare le informazioni, a ricostruire i modelli linguistici per andare avanti. E le prime frasi saranno un successo atteso e condiviso.

Molteplici appartenenze

Questi brevi accenni offrono alcuni orientamenti per gli insegnanti che si ritrovano in classe, magari a metà anno, un alunno straniero di nuova immigrazione. L’attenzione educativa al non verbale, la cura della relazione, la capacità di ascoltare i silenzi e di attendere i tempi di apprendimento individuali sono alla base del lavoro didattico, lo precedono e lo rinforzano.

Ciò vale per gli alunni stranieri, ugualmente per tutti gli alunni preadolescenti , impegnati nell’incessante ricerca di un’identità ancora fragile e “diffusa”. Alcune attenzioni, un buon clima di classe ed un insegnante significativo possono creare un ambiente sereno ed incoraggiante, e stimolare quel senso di appartenenza - frazionato in molteplici appartenenze in particolar modo per i preadolescenti stranieri - senza del quale non si può crescere bene.

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